Seguire sugli schermi televisivi, giorno per giorno, la vita
di una condannata a morte, il lento ma inesorabile avanzare di una malattia incurabile.
E la voglia irrefrenabile di spiare dal buco della serratura l’anima ed il deterioramento
del corpo, di un pubblico sempre più cinico e disincantato, pronto a
mercificare la sacralità e la dignità dell’esistenza. Bertrand Tavernier nel
1980 aveva già visto tutto ne “La morte in diretta”, preconizzando una società
liquida dove il voyeurismo l’avrebbe fatta da padrone. Un cast incredibile,
soprattutto nella scelta degli attori, Max
Von Sydow, Harry Keitel, il feticcio wendersiano Harry Dean Stanton ed
una incredibile Romy Schneider, danno vita ad una pellicola serrata che
concatena attimo su attimo i momenti della fuga della protagonista dalla
cinepresa. È cinema nel cinema quello che osserviamo, e che porta
inevitabilmente alla cecità, punizione inevitabile per voler vedere troppo. Per
l’ingordigia di immagini che sovraccaricano la nostra esistenza. Il finale con
il suicidio della donna ammalata e la rabbia furiosa del cameraman/ occhio
filmico, è da antologia. Se all’epoca questo film poteva sembrare fantascienza
pura, oggi in epoca di grandi fratelli e all news, sembra acqua passta, ma è
ancora utile a capire quanto si è sviluppata la morbosità della visione nella
nostra società. È immorale infiltrarsi e scavare nella vita altrui, controllarla
visivamente fino al cessare dell’ultimo respiro? Fino a dove possano osare le
telecamere?
martedì 10 gennaio 2012
La non dignità delle telecamere: La morte in diretta
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