Ci sono band e musicisti che sul palco si fondono corpo e anima con la musica, fagocitati dalle dissonanze sonore e dai feedback. Campioni assoluti i My Bloody Valentine che all’inizio degli anni ’90 rilasciarono un capolavoro assoluto di quel genere che i critici definirono shoegazer, quale Loveless (1991).
Un album dove le inquietitudini delll’approssimarsi della fine del millennio violentavano le esperienze rock precedenti in un coacervo sonoro delirante, ma al contempo di un innegabile fascino. Definire l’album del trio capitanato da Kevin Shields è una impresa. Di sicuro le influenze dei Velvet Underground sono evidenti, ma così anche qualcosa di lisergico alla Grateful Dead senza tralasciare l’etereo paradiso gorgheggiante nelle voci dei Cocteau Twins. La cifra stilistica di Loveless rimane proprio il suo punto di forza, una irriducibilità senza paragoni. L’impasto rumoristico che sembra casuale ad un primo ascolto è frutto della maniacale ossessione del leader per l’ordine , come se volesse comporre una sinfonia rumoristica da camera. Aspirazioni alte, quelle di Shields, che porteranno il gruppo ad una certa antipatia commerciale, e alla produzione di una discografia limitata.
La loro lezione però risulterà fruttuosa per gruppi a venire quali Oasis che ne sfrutteranno l’anima più commerciale e pop, naturalmente meno sperimentale. Musica intesa come suono, le parole se cisono possono venir tranquillamente biascicate, non sono importanti. Dal 1991 un lp che continua ad affascinare, il cui ascolto ci astrae dalla ovvia banalità quotidiana.
Nessun commento:
Posta un commento