lunedì 28 novembre 2011

Joe e Lucila...la formula magica del tango


La leggerezza e la grazia di un movimento etereo che abbraccia la passione la sensualità di una dinamica energica ed esplosiva senza eguali. La performance di Joe Corbata e Lucila Cionci vista sabato notte, nel corso dell'Astintango Festival mi ha lasciato ammutolito. Un crescendo di pathos ed intensità tali da abbagliare le mie sensazioni tanghere, il palato forse già sazio ed avvezzo da oltre 14 anni di esibizioni, che rimane peró avido di fronte all'epifania di un universo tanghero che esplode, si frantuma in cristalli di bellezza assoluta.

Il primo tema, una delle più affascinanti esecuzioni di Di Sarli con Florio, era quasi un prologo, con la sua melodica onda sonora alla deflagrazione di energia dei due temi successivi. Osservare Joe e Lucila muoversi, in perfetta simbiosi, non significa assistere ad una delle spesso fredde esecuzioni del tango show, nella accezione più classica di questo termine, ma entrare direttamente in comunicazione con il loro cosmo. Un cosmo dove il maschile ed il femminile si compenetrano, dialogano nell'energia e nelle dinamiche del movimento, ma anche e soprattutto nella interazione fra le due anime. Quella rappresentata dalla grazia leggera di Lucila e l'altro lato della medaglia, la potenza ed il fuoco di Joe. Ma, ed é questo ciò' che rende unica la coppia, le due facce diventano una e si fondono interamente con il pubblico. Come se l'aura emanata dalla loro esecuzione invadesse l'intero spazio della milonga, del palco, del luogo della rappresentazione.

Ad Asti é stato assolutamente impressionante.

La location, una suggestiva ed incantevole chiesa sconsacrata dalle origini remote, ha ospitato un rito pagano, il tango che diventa danza ed epifania del movimento creatore di una rinascita corporea. I corpi che si inseguono e si ritrovano senza mai perdersi, le struggenti note del bandoneon, a volte leggere ed a volte gravi, disegnate direttamente in aria e sul suolo da Joe e Lucila. Tutto concorre a creare una sensazione unica, quella di entrare direttamente nel loro universo, condividerne per il tempo dell'esibizione i segreti e le passioni. Da tempo una performance non riusciva a coinvolgermi in tale maniera. O meglio non riusciva a stimolare anche riflessioni che trascendono i canonici spunti del mondo tanguero. Conosco Joe e Lucila da tempo, ma non ho mai avuto fino ad ora l'occasione per alterne vicende di gustarmi in pieno una loro esibizione. La mia voglia é stata appagata in pieno. Vedo nel loro tango un universo in continua evoluzione, una ricerca costante di nuove dinamiche e nuove sensazioni da trasmettere al pubblico, ma in primo luogo a se stessi, consci che da un equilibrio perfetto nella relazione di coppia deriva la loro magia. L'essere unici ed irripetibili nel panorama mondiale tanghero. Perché l'altro grande punto di forza di questi due grandi artisti é l'essere personali ed irriducibili fino all'osso. Joe e Lucila come due grandi alchimisti del tango con una formula unica della loro rappresentazione tanghera che é inafferrabile perché continuamente in divenire, in trasformazione perpetua, … ma solo loro ne conoscono il segreto.

Un segreto che pervade i nostri corpi durante la loro esibizione…breve nell'arco cronologico della durata temporale, persistente ed eterno nel ricordo e memoria delle sensazioni.

martedì 22 novembre 2011

La sacralità ieratica di Rothko


Mark Rothko nella sua cappella a Houston con i suoi oscuri pannelli monocromatici invita alla contemplazione. Fu impressionato profondamente dall'arte del Beato Angelico, probabilmente dalkla commovente e ieratica semplicità, dall'ardore mistico o dai colori luminosi, forse tutte queste qualità evocavano in lui un'eco di armonia poichè nei limiti di un linguaggio contemporaneo ed astratto anche l'arte di Rothko esala un senso di grave intento etico ed è esplicita nella sua convenzione piena di decoro e nello splendore del proprio colore solenne. Gli elementi materiali, come un combustibile miracoloso, sembra che si consumino nel processo artistico emanando una energia spirituale e purificata che si attribuisce la forma della luce. Lo spazio riesce quasi a trovare espressione simultanea in masse sospese e colori orfici nell'interno dei limiti di piani rigorosamente semplificati. Le masse amorfe di colore sfumano senza un chairo limite lineare stemperandosi dentro lo spazio di sfondo come se la struttura fosse intrinseca nella pennellata e non richiedesse più il sostegno di uno schema prestabilito di linee dinamiche e piani coloristici definiti. Si può usare la parola voodoo per definire il sottilemagnetismo dell'ultimo Rothko da neri e marroni di una potenza lugubre e maestosa.

La notte... o della prepotenza del paesaggio


Non credo di amare i film di Antonioni per la trama o le interpretazioni seppur magistrali dei suoi attori. Ma la rappresentazione del paesaggio, il suo uso semantico e prepotente all’interno della narrazione ne fanno un unicum di un fascino senza tempo. Tra i film a cui sono di più legato c’è senza ombra di dubbio “La notte” pellicola del 1961 che vanta un cast a dir poco pazzesco: Marcello Mastroianni, Jeanne Moreau, Monica Vitti. In questo capolavoro del regista ferrarese il paesaggio diventa quasi il motore degli animi dei protagonisti, ne determina le tensioni, i movimenti e più di tutto il marchio di fabbrica della produzione filmica, la celeberrima incomunicabilità. Architetture di vetro e cemento, acciaio dallo stampo futuristico trafigurano una Milano, gelida ed avara di sentimenti, che traspongono la vertigine del vuoto interiore degli uomini che la abitano. Il vagabondare diventa dispersione frammentazione, depotenziamento dell’esistenza .E realizzazione in pieno della disarmonia che deriva dalla noia di stampo moraviano. Un capolavoro dove l’alternanza dei vuoti e dei pieni realizzano la visione del regista e soprattutto la disillusione degli uomini che comprendono di essere un semplice corollario allo spazio. E neanche l’alba con la celebre scena dell’abbraccio dei due protagonisti cancellerà la visione pessimistica ed alienante della condizione umana secondo il vangelo di Antonioni. Non so se il film sia invecchiato bene. Forse alcuni lati filosofici riflettono dei dubbi e delle incertezze di chi doveva ancora affrontare le logiche del postmoderno. Ma la fotografia in bianco e nero, quella splendida di Gianni Di Venanzo e la colonna sonora del colto Gaslini, sconfiggono alla grande l’usura del tempo.