domenica 13 febbraio 2011

LUNGA VITA AI FESTIVAL



L’avvicinarsi della primavera inizia ad arricchire il calendario degli eventi tangueri. Da marzo fino ad agosto è un susseguirsi di maratone, feste e soprattutto festival nella nostra penisola e nel resto dell’Europa.


Questo mi spinge ad una riflessione su questo particolare momento della scena tanguera in special modo in Italia. Sono ancora utili queste grandi kermesse o per meglio porre la domanda, la gente ha ancora voglia di grandi festival? La mia risposta, tradita da un certo sviscerato amore verso i meeting di notevoli dimensioni, è affermativa. Dopo aver partecipato al Festival di Mantova a dicembre, un appuntamento che sta traghettando verso la decima edizione, ed aver visto le serate piene di gente, le classi affollate, ancora una volta mi rendo conto che la gente ha una grande voglia di imparare, di godersi le esibizioni, di ballare con la musica dl vivo.


Il fenomeno della globalizzazione, i tam tam degli internauti che creano appuntamenti massonici per pochi eletti, lo show involontariamente ironico del tanguero della porta accanto, ed altri effimeri fenomeni di costume, lasciano il tempo che trovano. Quel tempo che non può cancellare un concerto di Alberto Podestà, la performance del Sexteto Milonguero, dell’Orchestra Silencio o dell’Hyperion Ensemble. Internet in questo senso è una vera manna.


Diventa una vorticosa enciclopedia dei ricordi dove scovare l’esibizione di Chicho e Juana, emozionarsi per un vals di Julio e Corina, stropicciarsi gli occhi davanti al virtuosismo di Sebastian e Mariana, sentire il desiderio irrefrenabile di ballare una milonga come Pablo e Noelia.


Quando ascolto qualcuno che dice che i festival sono superati mi vien da ridere. Ne ho visto e sentite tante dal 1997, l’anno in cui mi sono avvicinato a questo universo. Posso ammettere che è sempre più difficile per gli organizzatori costruire manifestazioni di questa portata, e mi fa sempre più rabbia l’ignoranza delle persone che non sanno quanta fatica e denaro stanno dietro un successo.


Magari la gente entra in milonga e non ha coscienza di quanto costi un service con luci ed impianti qualificati, a meno che si voglia fare la milonghetta del compleanno della terza media. Quanto costano le location? Ma vuoi mettere la sensazione indescrivibile di ballare a Siracusa al Castello Maniace o a Capri, immersi nell’atmosfera del Mediterraneo, e godersi l’alba che si riflette sul mare?


So bene che costa meno organizzare la milonga nel garage sotterraneo… e poi anche io non ho voglia di vedere una pletora di ballerini monocordi che non trasmettono emozioni, clonati secondo un programma da frullatore Moulinex. 1/3 di volcadas, 1/3 di colgadas, 1/3 di canaro, 1/3 di donato…


Ma quando scovo negli occhi lucidi della gente la voglia di tango, nell’istante in cui è appena terminata l’esibizione di grandi coppie di artisti allora comprendo che c’è futuro per questo ballo sociale. Torino, Firenze, Mantova, Siracusa, Roma, Venezia, … lunga vita al tango.

Giuliano Palma, star del Carnevale di Venezia



Una delle migliori voci della scena italiana in concerto gratuito a Venezia.


Il concerto di apertura di questa edizione del Carnevale vedrà scendere sul palco di Piazza San Marco, sabato 26 febbraio 2011, alle ore 21.00 Giuliano Palma and the Bluebeaters.


Una band che ha raggiunto in breve tempo la celebrità arrangiando con successo , in chiave ska e rock steady, hits e brani misconosciuti reggae, rock e pop del passato. Il nome del gruppo è infatti un chiaro omaggio alla musica giamaicana dei sixties , il blue beat, e grazie alle istrioniche qualità del leader Giuliano Palma, ex frontman dei Casino Royale, altra storica band della scena indie nazionale, grandi classici sono ritornati in auge in una veste nuova ed insolita.


Tra i suoi hits "Tutta la mia città "dell’Equipe 84, "Messico e Nuvole" di Paolo Conte nonché cavallo di battaglia di Jannacci, "Per una lira" di Lucio Battisti, "Che cosa c’è" di Gino Paoli. Brani appezzati dal grande pubblico sia nei passaggi radiofonici che nelle esecuzioni live, fino ad arrivare all’ultimo singolo "Nuvole rosa", un inedito che vanta la prestigiosa collaborazione di Melanie Fiona, regina delle charts nel 2009 con il singolo "Give it to me right", per un duetto in pieno stile Motown.


Info: http://www.carnevale.venezia.it/

L'Ultimo treno della Notte. Rape & revenge by Aldo Lado



Uno dei film più inquietanti del cinema anni’70 che da sempre resta unom dei preferiti di Tarantino e capostipite di molti slasher movies, diretto da uno straordinario maestro della fotografia, Aldo Lado. L’Ultimo treno della Notte, sorretto da una sceneggiatura serrata e piena di suspence, mette al centro dell’azione la violenza allo stato puro perpetuata da due teppisti Flavio Bucci e Gianfranco De Grassi, che violentano e poi uccidono due ignare adolescenti interpretate da Dalila Di Lazzaro ed Irene Miracle su di un treno proveniente dalla Germania per Verona. Dopo l’assassinio fuggono e si ritrovano per uno scherzo del destino in casa del padre di una delle vittime, un professore interpretato da un grandioso Enrico Maria Salerno. Sarà la fine della loro scia di violenze.


Si respira il pieno clima mefitico e pesante degli anni’70 fatto di violenze, inquietitudini e pruriti sesseuali, brutalità gratuita. Ancora oggi l’atmosfera claustrofobica che emerge, grazie alla geniale trovata di girare la maggior parte delle scene su un vagone, rende questa pellicola una delle più dure da digerire dell’epoca. Grazie anche alla caratterizzazione di Flavio Bucci che rende il suo personaggio uno dei villain più insopportabili della cinematografia b – movies italiana.


Nella trasformazione dell’innocuo professore in uno spietato aguzzino c’è forse una catarsi compiacente, specialmente per un’epoca inquinata da fatti di cronaca tremendi,e che vedeva spesso lo spettatore cercare nel cinema stili e modelli dove poter riversare la sua voglia di vendetta.


Da rivedere assolutamente!

Stalker, viaggio dentro le illusioni dell'anima



Chi e cosa spinge lo Stalker ad addentrarsi nella Zona? La voglia di conoscere meglio se stessi, la propria anima od inconscio o la voglia di vedere esauditi i propri desideri pi ù inconfessabili?



Con questa pellicola, il grande Andrej Tarkovskij costruisce una grandiosa metafora dell’uomo e della sua ricerca della felicità. La trama sembra quasi un pretesto per costruirvi una filosofia dell’esistenza. Una Zona proibita diventa terreno di caccia per gli stalker, delle misteriose guide fuorilegge che vi accompagnano curiosi o scienziati alla ricerca di segreti. Uno di questo accompagna uno scrittore in cerca di fama ed uno studioso che vuole approfondire delle ricerche su questo luogo misterioso. Dopo aver aggirato blocchi e controlli penetrano nel territorio e raggiungono anche la mitica Stanza del Desiderio al cui cospetto però, nessuno vuole entrare. I tre sfiancati dal lungo cammino tornano indietro, rinfacciandosi ognuno delle accuse di viltà. Se i due visitatori sono tacciati di lucido raziocinio, lo stalker è imputato di speculare sulle aspirazioni e sui desideri altrui. Quando quest’ultimo torna a casa si addormenta, e la pellicola si chiude con una scena che ha fatto scuola: la sua bambina con il solo sguardo sposta gli oggetti e fa cadere un bicchiere.



Una delle chiuse più suggestive mi lancia una riflessione ancora una volta sulla straordinaria arte di questo regista russo che spesso i più considerano cerebrale benché è tra i pochi al pari di Bergman e Bresson a saper affrescare compiutamente l’animo umano. Solo in apparenza Stalker può sembrare un film di fantascienza, il genere è destrutturato per lasciare spazio alla riflessione sulla dicotomia tra spirito e materia, un dualismo che nella Russia degli anni’70 doveva essere molto corrente. Il protagonista, attraverso questa zona simula il suo immaginario, il suo universo creandolo coinvolgendo i visitatori come pedine del suo viaggio onirico. Lo spettatore rimarrà dopo la visione con il dubbio se la Stanza esista davvero oppure no.



Ritengo che per Tarkovskij ciò sia marginale, un pretesto per parlare delle debolezze dell’uomo. Come dice egli stesso “ Questo mondo non è un luogo dove vivere felici. Non è stato creato per la felicità dell’uomo, anche se sono in molti a pensare che sia questa la ragione dell’esistenza. Penso che siamo su questa terra per combattere affinchè dentro di noi lottino il Bene e il Male, perché il bene vinca e noi ci si arricchisca spiritualmente.


Il suicidio delle convenzioni...Faust'O



È passato un trentennio da Suicidio, il folgorante esordio di Faust’O, alias Fausto Rossi, il più geniale dandy decadente del pop colto italiano. Ricco di suggestioni “alte” da David Bowie ai primi straordinari Ultravox, è un album che d’incanto ci riporta alla trilogia berlinese del Duca Bianco, e nel contempo ci fa riflettere su come anche in Italia in quel periodo si produceva musica di grande qualità. Il pentagramma su cui Faust’O costruisce il suo capolavoro è intessuto di incubi esistenziali, nevrosi tipicamente new wave, inquietitudine elettronica alla Kraftwerk.


Ma ciò che a distanza di tempo mi provoca un brivido è il fatto che Suicidio è incredibilmente avanti nel tempo, almeno di un ventennio se si leggono i testi o si pensa, riflettendo sulla parabola artistica di Faust’O al suo sberleffo nel corso di una sua partecipazione a Sanremo. Benvenuti tra i rifiuti, Piccolo Lord, Godi, sono le gemme di una voce ansiosa ed insofferente che come una meteora attraversa la nostra coscienza musicale.


Il gelo mi paralizza la memoria in una fredda giornata di febbraio, deve essere anche colpa di Faust’O…

La classe barocca dei Colosseum


Riascoltando dopo molto tempo i Colosseum non posso che confermare quanto sia debitore l’hard rock inglese alla band del grande batterista Jon Hiseman. Un destino comune a quello di altre grandi gruppi a cavallo tra i ’60 ed i ’70 ha toccato i Colosseum: l’oblio, talvolta spazzato via da qualche nuovo saggio musicale. Già ascoltando il primo album, Those Who Are About To Die Salute You, emerge la loro cifra stilistica, un jazz rock contaminato dal blues, quest’ultimo all’epoca in cerca di nuove strade per evitare triti clichè. Ascoltando brani del calibro di Rope Ladder To The Moon e Theme For An Imaginary Western emergono con prepotenza i fantasmi dei migliori Cream, e certi temi classici, quali Bring Out Your Dead fanno impallidire perfino i Procol Harum.

Apice della loro arte, Valentyne Suite arrangiata dal compositore jazz Neil Ardley, la cui title-track è un incredibile caleidoscopio di stili musicali,che coniuga uno spettacolare virtuosismo ad intime riflessioni. Prog, ante litteram, shakerano in maniera del tutto personale, jazz, classica, blues, offrendo una suite meravigliosa nel suo barocchismo estremo. Purtroppo di lì a poco, con Daughter of time, i Colosseum si sciolsero, proseguendo ognuno con delle dignitose quanto oscure carriere. Ma non lasciamo in un triste dimenticatoio queste gemme.

domenica 6 febbraio 2011

Il Salone Margherita, quando il tango, è uno stato dell'animo


Non avrei mai pensato di ballare in un luogo così ricco di fascino e di storia.

Nel ventre di Napoli sotto la Galleria Umberto si apre un mondo straordinario. È quello del Salone Margherita, forse riduttivo chiamarlo semplicemente milonga. Questo è un tempio del tango. Le note soavi di Di Sarli, i violini di De Angelis, il compas di D’Arienzo, la maestosità di Varela lambiscono e avvolgono il primo cafè –chantant mai aperto in Italia.

Dobbiamo sforzarci di tornare indietro di un secolo, alla Belle Epoque, a quel mondo spensierato e sofisticato che ancora doveva venire violentato dai conflitti mondiali. Con un onere così impegnativo era quasi doveroso organizzare eventi di grande portata. E tale obbligo Pasquale Barbaro lo sta svolgendo in maniera eccellente, anzi direi eccelsa come la qualità del suono, incredibilmente all’insegna dell’alta fedeltà che si diffonde nel salone.

Tutto il meglio della “napoletanità”, perdonatemi un neologismo, la si incontra nelle serate organizzate in questa location: squisita ospitalità, artisti di grande qualità e soprattutto una grande voglia di ballare nello spirito del tango. Ovvero come ballo sociale, aperto a tutti, a tutte le età, a qualsivoglia livello .

In questo melange un contributo importante viene anche da altre figure di riferimento nella scena tanguera partenopea e nazionale. In primis Sergio Natario y Alejandra Arrue, maestri tra i più apprezzati, insegnanti dotato di grande didattica e soprattutto divulgatori dell’esprit de milonga. Quando sono entrato al Salone Margherita, arrivato in anticipo come al solito per effettuare il check sound, ho visto una classe premilonga stracolma, con gente felice di apprendere i segreti di questo ballo, confortati da Sergio e Alejandra che generosamente rivelano tutti i segreti per risolvere una figura , o semplicemente, se lo si può considerare facile, spiegano una apparentemente banale camminata che è alla base del tango.

E Peppe ed Adelma, una coppia di amici fra i più appassionati tangueri italiani, instancabili ricercatori. Peppe è un visionario esploratore alla ricerca del Santo Graal del Tango… una delle poche persone con cui vale la pena discutere nel mondo del tango spesso offuscato da falsi miti ed effimere mode.

Sono felice di essere tornato a distanza dopo la Neapolis Tango Marathon a suonare nel Salone Margherita, perché forse ogni tanto nel tango ho bisogno anche io di emozioni. Quelle stesse emozioni che mi ha regalato questo posto incredibile. Quelle stesse emozioni e sensazioni che mi hanno regalato gli straordinari artisti ospiti dell’evento, Mario Consiglieri y Anabella Diaz Hojiman.

Assisi da tempo nell’olimpo tanguero hanno offerto una performance straordinaria, coniugando una personalità distintiva ad una padronanza tecnica che vanta pochi eguali. Su tutto una fluidità nella dinamica che viene sciorinata non fine a se stessa ma come tela alla Jackson Pollock dove dipingere di volta in volta con l’involontarietà del talento un tema di Pugliese, il compas di D’Arienzo, un classico Di Sarli.

Quando è finita la serata, ed ho abbandonato il Salone Margherita, uscendo a riveder le stelle… ho incontrato una Napoli notturna avvolta nel silenzio. Mi pareva di essermi destato da un lungo sonno. Dalla melodia sotterranea del tango alla quiete della superficie. Ed allora ho compreso che forse il Salone Margherita è come il tango, uno stato dell’anima, da godere forse nell’intimità, ma da condividere sempre in due.

LCD Soundsystem, citazionismo o mancanza di idee, o formula di successo? E Repetita iuvant?


Repetita iuvant? Una domanda da porre agli LCD Soundsystem che continuano con la stessa formula di successo a sfornare album in fotocopia.

Non è esente This is Happening che tra Moroder ed il Bowie di Heroes, il Moby più decadente e i Talking Heads nella fase cerebrale è un trionfo di citazionismo. Ma la mancata originalità è un difetto, oppure un pregio , o meglio un punto di forza di chi ha scoperchiato la lampada di Aladino e scoperta una formula magica? È indubbio che questo disco è sicuramente quello che nell’anno appena trascorso spingerà critici ed aficionados a riflessioni su questi temi benché il grande pubblico ne abbia già sancito il trionfo, sollevati a furor di popolo da danze spaziali e robotiche alla New Order.

James Murphy sicuramente la sa lunga, come se avesse abbassato la leva di una slot machine che confeziona ad ogni giro dei potenziali hit.

Ed allora mentre scrivo questo post mi viene in mente una bellissima puntata di Rai Stereo Notte ascoltata ieri alle ore 3.15 mentre ritorno da Bassano del Grappa dopo aver musicalizzato. Il tema era, i gruppi dei seventies erano più originali delle rock band attuali, malgrado forse una tecnica inferiore?

Bisognerebbe forse portare James Murphy ed i suoi LCD Soundsystem in confessionale!

Pavement: capolavoro in lo -fi


Quanti gruppi rock alternativi hanno con l’opera d’esordio infiammato il pubblico, salvo poi deluderlo con i lavori successivi? Mi viene subito in mente il primo album dei Stone Roses o, e di questo vorrei parlare lo straordinario “Slanted and Enchanted” dei Pavement.

La band di Stephen Malkmus , con un timbro personalissimo shakera un cocktail di rumorismo alla Sonic Youth, inquietitudini dei Pixies, dissonanze alla Jesus and Mary Chain e soprattutto lo spirito dissacrante dei Velvet Underground. Le linee melodiche lo-fi vengono strapazzate e biascicate da Malkmus con una inusitata chiave ironica, e sebbene spesso sembra che l’album venga suonato su un leggero strato di carta vetrata l’ascolto risulta stranamente piacevole. È l’alchimia sorprendente di tracce quali Summer babe o Loretta’ scars. Non può mancare poi la ballad elettrica e struggente di Here, in grado di smuovere i puristi più integerrimi. E sembra da un momento all’altro che esca fuori Lou Reed.

È passato quasi un ventennio, ma le emozioni sono sempre le stesse. Forse l’indolenza di Malkmus ci ha privato di una band che avrebbe potuto segnare definitivamente la scena rock di fine millennio. Ma se si sposa in pieno una scelta di vita lo – fi, allora nessuno è così coerente come Malkmus!!!