lunedì 23 gennaio 2012

Il Boss: non ci sono buoni e cattivi ma solo vincitori e perdenti


La scalata ai vertici della criminalità di un uomo senza scrupoli che schiaccia sotto i propri piedi ogni possibile traccia di sentimento, uccidendo il suo padre adottivo, il suo migliore amico e trascinando all’inferno la sua donna. Il boss è il terzo capitolo della trilogia di Fernando Di Leo. Forse il vangelo della sua poetica fatta di violenza gratuita quale chiave per poter sopravvivere in un mondo dove tutti sono pronti a tradire e dove l’unico dio è il denaro, o forse meglio il potere. Perché comandare è meglio di fottere. Il boss è la maschera di ghiaccio, impassibile ed inespressiva, per questo perfetta di Henry Silva che si muove in un universo dominato dalla mafia. Un cancro corrosivo che lentamente consuma ogni ganglio vitale della società, polizia compresa. Se le forze dell’ordine non sono colluse sono rassegnate ed impotenti. Il dualismo fra il corrotto commissario Torri( Gianni Garko) ed il questore Caprioli è esemplificativo di questa visione del mondo. Fantastico il finale con Silva che fa piazza pulita di tutti i suoi antagonisti e si allea con il viscido rappresentante del potere politico centrale in Sicilia e fa da preludio ad una agghiacciante scritta a caratteri cubitali CONTINUA… è la sintesi dell’universo dileiano. Non ci sono buoni e cattivi, ma solo vincitori e perdenti…

Quando la Mala Ordina...


Un piccolo ed insignificante magnaccia, che agli occhi degli altri criminali svolge una professione che non è da uomini, viene coinvolto suo malgrado in una storia più grande del suo profilo. E tutto suo malgrado. Dopo avergli ucciso moglie e figlia però qualcosa cambia, e l’uomo da niente si trasforma in uno spietato ed infallibile giustiziere che elimina uno ad uno tutti i suoi nemici, consapevole però che alla fine nulla cambierà. Anzi, la spirale di violenza lo soffocherà riportandolo alla dimensione di un semplice ingranaggio di una quotidianità fatta di soprusi, droga, e crudeltà. Questa in sintesi la trama dello straordinario La Mala Ordina, secondo capitolo della trilogia di Fernando Di Leo che tira fuori dal cilindro una pellicola tesa, nervosa ed asciutta dove gli attori protagonisti e non si rendono esecutori di scene da antologia, sia in quelle d’azione che nei dialoghi. Non solo Mario Adorf sugli scudi nel personaggio del macrò Luca Canali, da storia del cinema d’azione il suo inseguimento incollato al parabrezza di un ambulanza che ha spalmato davanti ai suoi occhi coniuge e prole, ma anche un monumentale Adolfo Celi nei panni del boss Don Vito Tressoldi che perde con il passare dei minuti la sicurezza dell’infallibilità del suo piano per fregare l’americano. Ma come non ricordare i due killer americani, Henry Silva e Woody Strode, che Di Leo tratteggia, divertendosi, in maniera surreale caricandoli degli stereotipi da gangster oltreoceano. E poi la musica di Trovajoli con un leit motiv che quando ti entra nel cervello te lo consuma con il suo battito funkeggiante. Gli inseguimenti, la violenza gratuita ed ostentata, iperrealista e tragica, il destino segnato dei personaggi sono tutti elementi della poetica del maestro Di Leo che hanno influenzato il grande Tarantino secondo sua stessa ammissione. E non deve essere difficile immaginarsi Quentin sbellicarsi dalle risate guardando il confronto fra Adorf e Celi, fra Adorf e Silva/Strode. Una metamorfosi progressiva che fa del magnaccia quasi un super eroe, un irreale paladino della giustizia ( quale?). Un crescendo che ridicolizza in alcuni tratti perfino Siegel ed il noir francese. …l’avrò visto almeno 50 volte, ma riesce sempre ad affascinarmi. Grande Fernando. Quanti registi hanno contratto debiti con la tua poetica, con il tuo talento unico naturale di girare scene d’azione e di violenza. Ed ancora una volta la critica mainstream deve ripercorrere i suoi passi. Quando mi parlano di noir contemporanei o di action movie italiani mi viene assolutamente da ridere. Fossero in grado di farne una di scena alla Di Leo. Gloria eterna alla Daunia film.

giovedì 19 gennaio 2012

La polizia ringrazia... Salerno come Eastwood


Uno dei capolavori del poliziesco all’italiana che anticipa alcune tematiche riprese dal leggendario Una 44 magnum per l’ispettore Callaghan, e consacra alla storia il decennio dei settanta all’insegna di un cupo pessimismo, fatto di servizi segreti deviati, giustizia fai da te, intransigenza politica.

Su tutto la violenza quale sola chiave di lettura della realtà e dei rapporti umani.

Nel 1972 Steno ( Stefano Vanzina) firma con “La polizia ringrazia” una pellicola tesa e nervosa che indaga sull’ambiguo rapporto tra un intransigente commissario di polizia, interpretato da un monumentale Enrico Maria Salerno, qui ai vertici della sua carriera, ed una misteriosa squadra anticrimine eversiva guidata da un insospettabile ex questore che arruola giovani virgulti destrorsi. Il commissario si trova a lottare ogni giorno con leggi sempre più a favore dei criminali e con il senso giustizialista di alcune fasce della società.

Sullo sfondo, come un’immensa ragnatela che lo stringe progressivamente nelle sue maglie una Roma livida e crepuscolare, dove pullula una criminalità fatta non solo di grandi delinqeuenti, ma in special modo di puttane, magnaccia, tossici senza speranza, scippatori. Una violenza che alla fine trionfa, spegnendo la velleitaria sete di giustizia, o meglio del rispetto della stessa e delle sue leggi, di un Salerno trafitto da una gragnola di colpi , vittima sacrificale di un glaciale plotone di esecuzione.

A livello sociologico questo film fa da apripista a tante considerazioni sulla correità di alcuni settori della nostra società nell’aumentare la criminalità, e soprattutto su un angosciante dibattito. Chi controlla i controllori? Siamo in anni in cui forte si faceva la cultura del sospetto, del dubbio di essere manovrati dallo Stato contro di esso, o meglio contro alcune frange. Nonostante il pessimismo di fondo, senza redenzione, il film fu un blockbuster dell’epoca per i botteghini nazionali, complice anche una memorabile colonna sonora firmata da Stelvio Cipriani.

Qualche intellettuale chic all’epoca disprezzò molto i gusti e le scelte degli italiani, ma visti oggi, questi film, rispetto alle fiction ed alle pellicole buoniste e terzomondiste di tanto cinema italiano gridano vendetta.

domenica 15 gennaio 2012

L'universo filosofico di Wittgenstein... e di Jarman




Con Wittgenstein di Derek Jarman, abbiamo l’altra
faccia del genio filosofico di questo secolo, intransigente ed inflessibile con
sé, prima ancora che con gli altri, l’angosciata e travagliata biografia di un
uomo disambientato, ossessionato da nevrosi e devianze, che impersonò e visse
la propria vita come una controversia continua, inesorabile ed a momenti
autodistruttiva, per la realizzazione di quell’altra persona che
incessanetemente ricorse e che avrebbe voluto essere, soffendo per tutta la sua
esistenza di quella bizzarra irrequietudine conosciuta come protestantesimo, in
cui nulla è casuale o contingente, qualunque cosa è una potenziale avvisaglia
di dannazione o salvezza.

Per Ludwig “ è
essenziale alla ricerca piuttosto il fatto che con essa noi non vogliamo
conoscere nulla di nuovo. Vogliamo comprendere qualcosa che sta già davanti ai
nostri occhi, benché propriamente ci sembra in qualche modo, di non comprendere
”.

I cent’anni del cinema convergono fedelmente con il secolo che è stato definito
della svolta linguistica. Rapido elenco di background: dal formalismo russo all’ermeneutica
ed alla fenomenologia, dalle teorie dell’informazione allo strutturalismo,
dalla semiotica al decostruzionismo. Il Novecento è stato tra l’altro l’epoca
della riflessione sul linguaggio, anche artistico. È nell’orizzonte della
rivoluzione linguistica che si muove oggi ogni vicenda, conoscitiva e di vita.



martedì 10 gennaio 2012

La non dignità delle telecamere: La morte in diretta




Seguire sugli schermi televisivi, giorno per giorno, la vita
di una condannata a morte, il lento ma inesorabile avanzare di una malattia incurabile.
E la voglia irrefrenabile di spiare dal buco della serratura l’anima ed il deterioramento
del corpo, di un pubblico sempre più cinico e disincantato, pronto a
mercificare la sacralità e la dignità dell’esistenza. Bertrand Tavernier nel
1980 aveva già visto tutto ne “La morte in diretta”, preconizzando una società
liquida dove il voyeurismo l’avrebbe fatta da padrone. Un cast incredibile,
soprattutto nella scelta degli attori, Max
Von Sydow, Harry Keitel, il feticcio wendersiano Harry Dean Stanton ed
una incredibile Romy Schneider, danno vita ad una pellicola serrata che
concatena attimo su attimo i momenti della fuga della protagonista dalla
cinepresa. È cinema nel cinema quello che osserviamo, e che porta
inevitabilmente alla cecità, punizione inevitabile per voler vedere troppo. Per
l’ingordigia di immagini che sovraccaricano la nostra esistenza. Il finale con
il suicidio della donna ammalata e la rabbia furiosa del cameraman/ occhio
filmico, è da antologia. Se all’epoca questo film poteva sembrare fantascienza
pura, oggi in epoca di grandi fratelli e all news, sembra acqua passta, ma è
ancora utile a capire quanto si è sviluppata la morbosità della visione nella
nostra società. È immorale infiltrarsi e scavare nella vita altrui, controllarla
visivamente fino al cessare dell’ultimo respiro? Fino a dove possano osare le
telecamere?





lunedì 9 gennaio 2012

In the Shadow of the Sun


In the Shadow of the Sun di Derek Jarman, compendia i personage in enigma e cifre simboliche, ripresenta il pensiero di Jung, secondo cui l'alchimia é il punto di collegamento tra passato e futuro, gnostici e psicologia. Solo familiarizzando con l'alchimia si intuisce come l'inconscio sia un processo e come la psiche si modifichi o si sviluppi secondo la relazione dell'io con i contenuti dell'inconscio. Sintomatico é che il fine dello spirito negli oggetti e nella materia naturale é l'elemento che l'alchimia vuole disgelare. Riportabili de visu a Jung sono due immagini - codice, che ripercorreranno l'ultima fase, tipicamente jarmaniane: lo specchio e il mare. il primo come chiarisce Jung é una funzione dell'anima dell'uomo: non uno specchio, ma un frammento infinitesimale di uno specchio, lo stesso tipo di specchio che un ragazino alza verso il cielo aspettandosi che il sole venga accecato. Un tentativo di catturare l'anima, cime gli adolescenti che popolano i film di Jarman dotati di specchi o di altre superfici riflettenti. Il mare invece, simbolo dell'inconscio collettivo, é l'orto dove germogliano le visioni, con l'acqua in perenne movimento che oltre a registrare lo scorrere del tempo, armonizza i rapporti sensoriali.