mercoledì 19 gennaio 2011

El Tango. Manana, l'imperidbile catalogo tanguero della label di Makaroff


Come per molti generi, dal blues al rock, dal punk al reggae, leggere la musica attraverso la storia delle etichette discografiche può essere una chiave molto interessante. Anche l’atlante del tango non si sottrae a questo metodo ed oggi voglio fare un’incursione nel mondo della Manana Tango, label di Eduardo Makaroff unodei fondatori dei Gotan Project, alfieri della Revancha Tango. Argentino approdato a Parigi nel 1990 profondo conoscitore della tradizione tanguera, ma allo stesso tempo aperto alle nuove suggestioni e contaminazioni provenienti dal mondo folklorico e dall’elettronica / chill out, Makaroff oltre a promuovere la cultura del tango nel mondo, cerca di soddisfare il bisogno degli ascoltatori di conoscerne ogni minima sfaccettatura. Il packaging è molto curato, dalla scelta dei materiali alla grafica, ciascun aspetto è in grado di accontentare sia il neofita che l’appassionato. Undici le perle da gustare sprofondati in poltrona, lasciandosi cullare dall’alta fedeltà delle produzioni e magari disegnando immaginarie evoluzioni in milonga, sebbene questi lavori siano per lo più dedicati all’ascolto. “Imaginario” di Gerardo Di Giusto è un album di solo piano suonato da un musicista dalla solida formazione classica, con un debito verso atmosfere piazzolliane. Sul versante della vocalità da piano bar, rauca, di una raucedine dovuta alle sigarette ed al whiskey si pone Daniel Melingo con “Maldito Tango”, uno dei dischi più sinceri e belli dell’interessante catalogo. Per gli amanti di questo Tom Waits che evoca la parte più bohemien di Baires un lavoro imperdibile. Così come “Murga Argentina” di Caceres dedicato allo straordinario ritmo negro che trasuda africanità da ogni nota. Passionale, sanguigno e mai banale, basta ascoltare solo una traccia del calibro de “La Retirada” per comprendere la portata di questo lavoro. Accompagnato solamente dalla chitarra in “Tango Esencial”, Horacio Molina rilegge alla sua maniera, intima e sofferta gli standards della tango canzone: Niebla del Riachuelo, Flor de Lino, Naranjo en Flor, svettano per nitore e morbidezza di vocalità. Un viaggio on the road nell’argentina rurale dove tango, zamba e murga si mescolano fino a divenire una colonna sonora alla Ry Cooder di Paris Texas , debitore di certe atmosfere borderline alla Calexico, è lo straordinario affresco sonoro di El Gaucho, a firma di Muller & Makaroff, leader storici dei Gotan Project. Uno dei più bei dischi usciti di recente nel panorama tanguero e latino americano, che fa decollare la mente su paesaggi polverosi bruciati dall’arsura del sole e oppressi dal frastuono del silenzio. Il catalogo comprende anche Beytelmann, mosalini ed altri lavori di Caceres e Melingo. Per una panoramica si può anche acquistare Perlas del Label, sorta di best of dell’etichetta, ma tutti gli album in catalogo non dovrebbero mancare nella discografia di un buon amante delle sonorità rioplatensi…

Immorale solo il pregiudizio: la visione di Walerian Borowczyk


Senza dubbio uno dei registi più originali e incatalogabili degli anni settanta è sicuramente Walerian Borowczyk, che a qualcuno potrebbe destare sopite pruderie adolescenziali. Protagonista assoluto delle sue pellicole è il corpo femminile declinato sempre in una veste di profonda sensualità che per pudore della visione non sconfina nell’hardcore. L’autore polacco, nato negli anni ’20 del secolo scorso a Poznan, usa il suo occhio come un microscopio da entomologo che, con algida perfezione scruta gli oggetti e tratta i corpi a guisa di questi ultimi. E’ innegabile che il voyeurismo sia una componente fondamentale della propria filmografia, intrecciato ad un erotismo colto e raffinato che media le pulsioni sessuali alla ritualità e ad un cerimoniale di libidine che nel gesto sembra soddisfare qualsiasi afflato carnale. La donna diventa un vortice che crea la narrazione e manovra come un burattinaio i destini degli uomini che si muovono quasi sempre in ambienti chiusi e circoscritti, a significare una claustrofobia dei sentimenti. L’immoralismo e l’ostentato erotismo dei corpi muliebri sono una vera celebrazione della bellezza del nudo femminile e non l’esibizione mercanteggiata di corpi oggetto. Chi ha visto alcuni dei lavori più significativi di Borowczyk come Goto, Racconti Immorali, Interno di un Convento, fino al più spinto La Bestia non può non constatare la solennità dell’azione erotica che trasgredisce codici e leggi del vivere civile in una liturgia quasi religiosa. Che addirittura negli animali diverrà una metafora dal terribile ed inquietante realismo magico. Importante è la convinzione del regista che il film rappresenta un’arte omogenea come la pittura e non un’azione di sintesi. Approfondire la filmografia di Borowczyk che oggi pare caduto in un dimenticatoio vuol dire anche intendere la mentalità di un’epoca ed i suoi tabù, che la pornografia del desiderio e delle immagini di oggi ha obliato. In ordine cronologico, l’arrampicata sociale senza scrupoli del criminale protagonista di Goto, l’isola dell’amore, che cede il passo ai Racconti immorali, campionario di violenze e lussurie a cavallo di vari secoli, dalla sanguinaria Bathory agli amplessi incestuosi di Lucrezia Borgia. Storia di un peccato, l’amore che forse riesce a redimere un’esistenza fatta di infanticidio, prostituzione, crimine, ma diventa passione zoofila e puro desiderio, sebbene vissuto oniricamente ne La Bestia. E da una novella di Stendahl, Interno di un convento, amara parabola sulle ipocrisie e le censure che spesso conducono, sotto il peso dei sospetti, all’annientamento di sé, come nel suicidio delle due suore protagoniste. “Non esiste una sola verità filosofica, ma molte verità. Io sono completamente e assolutamente autonomo e giudico per quello che vedo, per quello che mi dimostra la gente, per l’esperienza di vita insomma”. Una riflessione di un autore che andrebbe riscoperto.

lunedì 17 gennaio 2011

Napoli in cronaca nera: lo show della Camorra


Un libro che ripudia ogni sensazionalismo e coinvolgimento emotivo con i protagonisti e le storie narrate, purtroppo vere . Napoli in cronaca nera, edito da Newton Compton, scritto a due mani da Simone Di Meo e Giuseppe Iannini, narra alcuni degli episodi più comuni, e per questo sconvolgenti, della criminalità partenopea a fianco delle pagine più nere ed eclatanti della cronaca nera. Imprenditori collusi, colletti bianchi, immacolati padri di famiglia, politici senza scrupoli, divi dello show business, star neomelodiche. Sono questi i “mostri” passati in rassegna dai due autori, in un vortice di esecuzioni, vendette, ritorsioni, missioni di morte che hanno un unico comune denominatore. La longa manus senza pietà della camorra, dei suoi rituali atavici e condivisi dal territorio, da quella popolazione che vede nel suo abbraccio letale l’unica ancora di salvezza per uscire da un’esistenza condannata alla miseria ed agli stenti. Di grande impatto le pagine vissute in prima persona dagli infiltrati che, per uno stipendio da fame rischiano la vita, gli “infami” marchiati per sempre da una vita obbligata alla clandestinità. Un libro pieno di suspence come una crime novel, ma inquietante e doloroso come soltanto la verità può essere.

Andrej Rublev


I dubbi se il cinema può essere annoverato fra le arti visive del XX sec. vengono fugati alla visione di qualsiasi pellicola di Andrej Tarkovskij. In particolare del capolavoro assoluto del 1966, Andrej Rublev. Una narrazione epica, sorretta dalle immagini grandiose del regista russo, rende omaggio alla vicende di uno straordinario pittore di icone vissuto tra il XIV e XV sec. La sua vita attraversa uno dei periodi pùn cruciali di quella terra sconfinata, lacerata da carestie, scorribande dei Tartari, lotte fra principi. Un viaggio di oltre due ore, diviso in due parti, ciscuna con prologo ed epilogo. Cruciale l’incontro tra il protagonista Andrej Rublev, ed il celebre pittore di icone Teofane il Greco che gli affida la decorazione della cattedrale moscovita dell’Annunciazione. Il dialogo fra i due artisti è uno dei momenti più toccanti della pellicola, con la giustapposizione fra due autentiche weltanschauung: Teofane crede fermamente in un’esistenza al continuo servizio di Dio, mentre Andrej ripone speranze nell’uomo e nelle sue possibilità di riscattare una condizione malvagia da cui il primo ritiene impossibile sfuggire. Seguirà un altro momento di straordinaria intensità con Rublev incaricato da un principe di affrescare un Giudizio Universale, ma l’artista rifiuta di seguire gli standard dell’epoca, per non atterrire con immagini troppo crudeli il popolo. Atroce lo scherzo del destino, che vedrà tutte le sue maestranze artistiche uccise o accecate dal principe rivale del committente perché invidioso dell’opera. Rublev si ribella a questo gesto ed imbratta le pareti già pronte ad ospitare l’affresco. Nella seconda parte del film, il fratello del principe si allea con i Tartari per spodestarlo e invia delle truppe che con grande violenza fanno scempio e carneficina degli abitanti irrompendo perfino nella cattedrale. Andrej per salvare una donna dallo stupro bieco di un soldato lo uccide, cadendo in preda allo sconforto. Immagina di ricevere una visita dall’amico Teofane, confessandogli di non credere più alla bontà del genere umano, e si chiuderà in un lungo mutismo. Nell’episodio conclusivo, Andrej osserva il giovane Boriska fondere i metalli per costruire una campana che emette il primo tocco alla presenza del popolo e delle autorità. I due si allontanano insieme in un pellegrinaggio senza meta, con due missioni complementari, dipingere e fondere campane. L’epilogo della pellicola è a colori con le riprese delle opere più celebri dell’artista, fino al volto del Cristo bagnato dall’acqua che si trasformerà in quella di un fiume dove pascolano i cavalli. Forse solo alcuni lavori di Pasolini e Bresson, riescono a esprimere il tormento dell’esistenza, la lotta manichea fra bene e male, cui è sottoposto quasi da agnello sacrificale l’artista. Il viaggio di Andrej Rublev fra il male della Storia, equivale alle sofferenze di un popolo che attraverso prove indicibili sopravvive e si innalza ad un livello più alto di spiritualità. Una spiritualità intrisa di fede e misticismo, ma soprattutto comunanza di ideali. Il popolo, la grande madre Russia, il rito della campana. Sono i brividi provocati in me dopo anni, dalla visione di questo film, l’unico dove l’afflato del popolo diventa quello di Dio. E riesce a produrre capolavori immortali, l’arte iconica di Rublev, capace di vincere l’erosione del tempo.

mercoledì 12 gennaio 2011

Mean Streets discesa agli inferi in Scorsese style



La personalissima lotta di Martin Scorsese con i suoi fantasmi di gioventù a metà fra l’olezzo di incenso da Chiesa e ribellione da strada emerge con forza in Mean Streets. Un capolavoro di neorealismo all’americana che grazie alla parabola corale dei quattro protagonisti mette in scena una New York spettrale e violenta, crudemente rappresentata dalla fredda luce al neon di squallidi bar e strade sudice, specchio dell’anima nera della grande mela. E’ una città senza redenzione, quella amata dal regista , ma è il milieu amato dal teppista Johnny Boy, o dallo strozzino Michael, da Tony, da Charlie. È il primo banco di prova di due attori che segneranno il cinema a stelle strisce del trentennio successivo: il manierista Robert De Niro e il conturbante e nevrotico Harvey Keitel. La lenta discesa agli inferi della macchina da presa, senza che si sfoci nella tragedia vera e propria, ma non è forse questo il vero dramma?, è anche la lettura di una città senza redenzione vissuta sulla propria carne da uno Scorsese che fa le prove generali della liricità epica dei capolavori successivi. Da rivedere per capire i germi di un’opera unica come Taxi Driver e scoprire il lato oscuro e meno scintillante degli States…

domenica 2 gennaio 2011

Mondo Exotica...un viaggio nella musica della generazione cocktail



Un viaggio nel conturbante universo sonoro della cocktail music, la lounge più autentica, sorseggiando un Martini, eccitandosi al fruscio caldo della puntina del proprio giradischi che affonda nel solco consumato di una traccia di Henry Mancini, di Yma Sumac. Rimpiangendo, magari come me che non li ha vissuti i sixties ed i primi seventies. Mondo Exotica di Francesco Adinolfi è un volume che non può mancare nella biblioteca di ogni musicofilo, degno di questo nome, perché copre in sole 500 pagine un universo spesso ignorato dalla bibliografia musicale. Come dice nel puntuale sottotitolo, suoni, visioni e manie della Generazione Cocktail. Ed allora partiamo per un volo siderale nello Space Age Pop, sognando le orchestre di Les Baxter e le sofisticate dark ladies del noir americano tanto care a Dashiell Hammett. Bellissimo poi il capitolo riservato al jazz criminale e quello dedicato alla spy music nostrana. Una rassegna di numi tutelari che ancor oggi mi provocano dei brividi, accanto al pluricelebrato Morricone, i grandissimi Piccioni, Ferrio, Bacalov , Trovajoli, Ortolani. La bibliografia alla fine del volume vale da sola l’acquisto. L’ho divorato in un lontano pomeriggio piovoso veneziano dieci anni fa…

Il poligono della siccità



C’è nella narrativa e nella cinematografia brasiliana una figura mitica, che mi ha sempre affascinato: il cangaceiro. Il bandito che lottava epicamente ed eroicamente contro i latifondisti del nord est, nel Sertao.


A questa casta, intrecciata con la fame, la prostituzione, e la violenza, si affianca e successivamente domina, con una sacralità di tipo manzoniano, l’Untore. E’ questo il deus ex machina de “Il poligono della siccità”, la metafora grandiosa e commovente dello scrittore brasiliano Diogo Mainardi. Costruito come un film di Glauber Rocha, le pagine sembrano intossicarci con le atmosfere polverose delle strade percorse da Manoel Vitorino che vaga alla ricerca di un cimitero dove seppellire il cadavere in via di putrescenza del proprio figlio. La sintassi secca, è cruda e violenta come Catarina Rosa che ammazza, impiccando e squartandolo il marito. Un universo senza speranza, dove nessuno nutre velleità di redenzione anche perché lo spettro dell’Untore che tutto distrugge ed annichilisce in un afflato escatologico, non offre via salvifica. L’untore, con il suo mortale contagio, bacia indifferentemente latifondisti e mandriani, bambini e vecchi, ma soprattutto distrugge il mito dell’allegria e del finto folclore del brasile. Come dice l’autore stesso nella conclusione “ Il lettore non conta. E’ subalterno rispetto all’autore e non ha alcun diritto d’interferire… quando la letteratura non uccide l’uomo, è l’uomo a uccidere la letteratura”.


I re taumaturghi



Non c’è forse nessuna analisi più lucida e puntuale della condizione regale nel Medioevo di quella descritta con un impareggiabile leggerezza di scrittura da Marc Bloch ne “I Re taumaturghi”. Un bellissimo saggio che parte dalla guarigione dei malati di scrofole da parte dei re di Francia attraverso la sola imposizione delle mani. Un potere divino su cui a lungo hanno costruito la propria fortuna i monarchi. La sacralità che diventa il controllo assoluto sulle plebi in un mondo, quello medioevale, dove la discesa del potere soprannaturale e religioso, sancisce il privilegio assoluto. Ovvero il trono temporale. Grazie a questa “pratica” spiega Bloch, si crea la discriminante di questi uomini superiori. Il re come “unto del signore”. Forse ai giorni nostri continua questa parabola?