martedì 10 maggio 2011

Picherna...quando basta la presenza ad evocare il tango






C’è qualcosa di magico in Felix Picherna che lo rende unico e inavvicinabile da chiunque voglia fare il musicalizador ( o dj, o tj, …) , ed è il talento di essere sempre e solo se stesso. Il dono di essere “naturalmente” una icona, ed una parte della storia del tango argentino. Scrivo d’impulso questo post riflettendo su una conversazione scambiata neanche un mese fa al festival di Torino. Riguardava la composizione di una tanda di vals, che non era omogenea negli autori e nel cantante, ma suonava incredibilmente perfetta, era ancora una volta l’epifania del genio del tango. Qualcosa di inspeigabile che improvvisamente ha riversato in pista tutto il numeroso pubblico che assiepava il Lingotto. Ancora una volta Felix riusciva a sorprenderci, come se inconsciamente, sbeffeggiasse chi del tango vuole fare una algida algebra musicale che obbligherebbe il pubblico in virtù di non so quale assioma a ballare una parte minima di orchestre e periodi, rigettandone un’altra, ponendosi quali detentori di una verità assoluta. Ma Felix è lì, in consolle, mentre è alle prese con le sue cassette fuori dal tempo, anzi che del tempo hanno stigmatizzato i suoi effetti a rappresentare la naturalità del tango. Basta solamente la sua figura, discreta, elegante e mai sopra le righe, a rappresentare la magia di questo mondo, definirlo ballo sarebbe riduttivo. Sono convinto che centomila tango dj non saprebbero fare di meglio, perché quello che lui trasmette è l’essenza del tango, la storia. Il fascino che trasuda da chi ha vissuto fianco a fianco con i protagonisti. Ed allora rappresentano dei momenti imperdibili quelli in cui talvolta regala degli aneddoti, ti fuga i dubbi di alcune parole in lunfardo e con la sua convivialità continua la tradizione sociale del tango. Quanti oggi possono dire realmente di conoscere il significato di un tema, di aver vissuto le evoluzioni del tango, il suo attraversare anni di oblio in attesa della rinascita. Aver ascoltato Podestà al massimo della forma? Di Sarli e Pugliese che suonavano e dirigevano le proprie orchestre?




Quando sento talvolta qualcuno che vorrebbe mettere da parte Felix rimango profondamente deluso, è come se volessimo cancellare la storia, la tradizione, e senza questo bagaglio di sicuro ci si arena. Non lo ritengo neanche un gesto iconoclasta, ma soltanto frutto di mera ignoranza, di chi pensa che in due mesi, bastano diecimila pezzi scaricati dal web, o anonime playlist, ad intuire la magia della milonga, a prenderne le redini in mano.




Ed allora non vedo l’ora di riascoltare il grande Felix, che in virtù di un superpotere a me ignoto, trova senza preascolto la traccia desiderata, ed esortando il pubblico a scendere in pista annuncia con la sua voce radiofonica di altri tempi falta el mejor…

Machete... y nada mas!






Solo chi ha amato i b-movie degli anni ’70, americani e soprattutto nostrani, chi ha amato le pellicole grondanti una violenza ipertrofica e parossistica, quelle favolose ed oscure colonne sonore introvabili che facevano puntualmente da sfondo a sparatorie, inseguimenti vertiginosi in auto ed a momenti di esplosiva sessualità, può comprendere fino in fondo un capolavoro manierista quale Machete. Robert Rodriguez, gemello del divino Quentin si diverte a frullare in un cocktail esplosivo cinematografie nascoste che olezzano di pulp e cinema di quart’ordine, la cui immagine iconica è il volto/ corpo di Danny Trejo. Un attore feticcio, che non può essere che Machete, l’agente federale pieno di cicatrici e tatuaggi sulla sua pelle al pari dell’orografia di una cartina geografica delle montagne dell’Arkansas che si trova al centro di un complotto politico. Il plot narrativo è l’espediente per liberare come un vulcano il vorace appetito cinefilo del regista che riesuma anche alcune icone hollywoodiane degli anni’80, da un fantastico Don Johnson, ripugnante fino al midollo nel suo fanatismo razzista da Klu Klux Klan, al perfido villain Torrez interpretato da uno Steven Seagal che deve aver fatto un patto più che con il diavolo, con il chirurgo plastico. Se a questi aggiungiamo un De Niro mastodontico e mai sopra le righe, oltre ad una sensualissima Jessica Alba, ingrado di risvegliare sopiti istinti sessuali anche in uno zombi romeriano… il gioco è fatto. Quello di condensare azione, divertimento, sangue e violenza nelle giuste dosi, in una pellicola che non mancherà di entusiasmare il pubblico. Io ne sono stato coinvolto fin da quando il film era in nuce, ovvero un semplice trailer in GrindHouse , Planet Terror, seguendo una regola tipica dei movie che annunciavano con trailer grotteschi ed a tinte forti la prossima pellicola. Ma il pezzo forte rimane Trejo destinato ad entrare nella galleria di quei personaggi, la cui faccia patibolare disegna interamente un film. Caldo, erotico nella sue imperfezione,… un fascino a cui le donne non sanno resistere, violento… vive alla giornata non mandando sms…




Dopo il buio di Sin City e la fantascienza maledetta di Planet Terror, il Sanguinario Texas di Machete… ma non aspettatevi sms di chiamata, Danny Trejo non ne manda, forse perché sta facendo un bagno in piscina con Lohan o sta mangiando un taco dalla Rodriguez… o sta semplicemente affilando il suo machete…




Ed ovviamente il pubblico è avvertito, titoli di coda con l’avvertimento di altre due pellicole in arrivo!!!




Robert Rodriguez… tu sia benedetto in eterno!







Blues addiction...The Dead Weather






Il Blues violentato dai feedback chitarristici e dall’irruenza punk, ma anche dall’ondeggiante dondolio sonoro del reggae/dub. Gli ingredienti esplosivi di Horehound, lavoro del supergruppo The Dead Weather, o meglio del genio malsano blues di Jack White conquistano in rapidità. Come una scossa adrenalinica che risveglia ancestrali paure e vibrazioni. Ovvero sprofondare in un abisso dove la voce spettrale e cavernosa di Mosshart declama litanie ipnotiche, sorrette dalla ritmica di White e Lawrence che si mimetizzano talvolta in afflati vintage, talora in urla da nostalgico dylaniano. Ma soprattutto con la certezza che il blues seduce certo… ma inesorabilmente conduce verso le porte delle perdizione… pace all’anima di Huxley.

Kasabian... Indie rock, but It's only Rock'n'roll









Esuberante fino all’eccesso, lisergico ed imbevuto di rock’n’roll fino al midollo, delirante come il miglior sound di Madchester. Il terzo album dei Kasabian, “West Ryder Pauper Lunatic Asylum” è tutto questo, ma soprattutto è un omaggio viscerale al brit pop, alle sue aradici più nobili in un coacervo di citazioni mai banali. Tutti i brani interpretano la doppia anima dei Kasabian, spirito ribelle e ritmi improvvisamente rallentati per godersi, anche se solo per un istante i trip di sostanze psicotrope. Agli echi degli Oasis si sovrappongono le irresistibili e genuine alchimie degli Stones, basti ascoltare una traccia come Fire. Ma il viaggio nei miti giovanili non si esauriscono certo qui, altrimenti come andrebbe speigato l’omaggio ai Kinks o alle atmofere care a Leone ed al duo malefico Tarantino / Rodriguez. Tra i must dell’album West Ryder Silver Bullet che Tom Meighan canta con l’attrice Rosario Dawson. Verrebbe forse voglia tra una traccia e l’altra di scolarsi le bottiglie di Jack Daniel’s che fanno tanto rocker maledetto,… go for it! Indie Rock… it’s only rock’n’roll

Bene vs.Male? Il braccio violento della legge






Il confronto duro e manicheo tra Papà Doyle e Charnier, in un crescendo parossistico di violenza è uno degli scontri buono / cattivo meglio rappresentato nella storia del cinema. Il direttore d’orchestra di questa affascinante sinfonia della lotta sempiterna tra bene e male è il grande William Friedkin. “Il braccio violento della legge” del 1971 con protagonisti i grandissimi Gene Hackman e Fernando Rey e comprimario, anche se è riduttivo chiamarlo tale, Roy Scheider, è un film straordinario che già al primo fotogramma ci trascina nei sordidi vicoli di due metropoli New York e Marsiglia. Qui si fronteggia una squadra narcotici sui generis ( Hackman e Scheider) reduce da svariati insuccessi e un’organizzazione di narcotrafficanti al cui vertice c’è l’elegante e raffinato Rey, già attore feticcio del maestro Bunuel. È appunto la rappresentazione dei due antagonisti operata al rovescio dal regista, una delle novità più interessanti della pellicola. Man mano che si scende all’inferno il “buono” Doyle/Hackman diventa sempre più violento, dai modi spicci ed efferati, pronto a schiacciare qualsiasi cosa e qualsiasi collega pur di arrestare Rey che, malgrado a capo della gang criminale, è sempre gentile, cortese e colto. Non si può dimenticare la lezione dell’Infernale Quinlan di Welles, ovvero il confine sempre più labile tra bene e male, con il poliziotto che è disposto a falisificare ed a creare prove per esercitare il suo potere e porre a termine la sua missione. Il finale della pellicola, contribuisce ancora di più a creare sgomento nello spettatore con i malavitosi arrestati ed uccisi, ma allo stesso tempo la fuga di Rey e quindi il fallimento dell’operazione di polizia di Hackman che preso dalla foga di arrestare il boss uccide un suo collega, non rattristandosene particolarmente. Il successo del film di Friedkin deve anche molto al realismo ed al montaggio serrato delle scene d’azione e ad un modo allora inedito di raccontare la società americana che si stava aprendo a profonde ferite esistenziali. Di lì a poco sarebbe arrivato il nuovo cinema americano… anche se nessuno riuscirà a sottrarsi a questa domanda “ Fino a che punto e con quali metodi, e soprattutto a che prezzo si può combattere il male?”

Road Movie fra silenzi ed archietture svuotate






Incastonato nello sguardo icona del suo attore feticcio degli anni’70, Rudiger Vogler, Alice nella città è forse uno dei film più belli mai realizzati sul tema del viaggio come movimento dell’animo umano. Wenders appoggiandosi ad una trama esile, quasi da romanzo giallo, un giornalista riceve in affidamento da una donna all’aeroporto una bambina, costruisce con lunghi silenzie magistrali movimenti di macchina infiniti una epica dello spostamento e dello straniamento. Un lungo e surreale girovagare pieno di fascino alla ricerca dell’altro che forse è la ricerca di sé. Forse non c’è niente di più affascinante nel regista tedesco che il suo uso dell’ellissi e della dilatazione dello spazio tempo. Una forma quasi di rigore luterano della visione che fa del cinema un’arte pari alla pittura. Dilatando il tempo, afferma Wenders, si riesce a scandagliare in profondità cosa si annida dentro l’animo umano. Ed allora ecco che il colore non può essere altro che il bianco e nero, un candido gioco di pieni e vuoti, ombre e chiaroscuri che differiscono la verità della visione in unaltro momento. Il protagonista quasi con scelta obbligata è un fotoreporter che si trova a New York, una delle città simbolo per i cineasti della generazione wendersiana, per scrivere un reportage sugli USA, ma licenziato dall’ottuso editore per la scarsa qualità del materiale decide di tornare in Germania e si imbatte nel’aeroporto, un non luogo all’Augè, in una signora tedesca che gli affida Alice. Nomen Omen… di tutte le traversie e del rincorrersi fra il protagonista e la bambina forse nascerà un libro, … ma forse. In Wenders non vi è mai certezza dell’azione, solo lo sguardo, el lunghe panoramiche sono degli assiomi. Un road movie dove la conoscenza si fa attraverso il silenzio, architetture svuotate, paesaggi de umanizzati.