martedì 10 maggio 2011

Road Movie fra silenzi ed archietture svuotate






Incastonato nello sguardo icona del suo attore feticcio degli anni’70, Rudiger Vogler, Alice nella città è forse uno dei film più belli mai realizzati sul tema del viaggio come movimento dell’animo umano. Wenders appoggiandosi ad una trama esile, quasi da romanzo giallo, un giornalista riceve in affidamento da una donna all’aeroporto una bambina, costruisce con lunghi silenzie magistrali movimenti di macchina infiniti una epica dello spostamento e dello straniamento. Un lungo e surreale girovagare pieno di fascino alla ricerca dell’altro che forse è la ricerca di sé. Forse non c’è niente di più affascinante nel regista tedesco che il suo uso dell’ellissi e della dilatazione dello spazio tempo. Una forma quasi di rigore luterano della visione che fa del cinema un’arte pari alla pittura. Dilatando il tempo, afferma Wenders, si riesce a scandagliare in profondità cosa si annida dentro l’animo umano. Ed allora ecco che il colore non può essere altro che il bianco e nero, un candido gioco di pieni e vuoti, ombre e chiaroscuri che differiscono la verità della visione in unaltro momento. Il protagonista quasi con scelta obbligata è un fotoreporter che si trova a New York, una delle città simbolo per i cineasti della generazione wendersiana, per scrivere un reportage sugli USA, ma licenziato dall’ottuso editore per la scarsa qualità del materiale decide di tornare in Germania e si imbatte nel’aeroporto, un non luogo all’Augè, in una signora tedesca che gli affida Alice. Nomen Omen… di tutte le traversie e del rincorrersi fra il protagonista e la bambina forse nascerà un libro, … ma forse. In Wenders non vi è mai certezza dell’azione, solo lo sguardo, el lunghe panoramiche sono degli assiomi. Un road movie dove la conoscenza si fa attraverso il silenzio, architetture svuotate, paesaggi de umanizzati.




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