domenica 2 gennaio 2011

Il poligono della siccità



C’è nella narrativa e nella cinematografia brasiliana una figura mitica, che mi ha sempre affascinato: il cangaceiro. Il bandito che lottava epicamente ed eroicamente contro i latifondisti del nord est, nel Sertao.


A questa casta, intrecciata con la fame, la prostituzione, e la violenza, si affianca e successivamente domina, con una sacralità di tipo manzoniano, l’Untore. E’ questo il deus ex machina de “Il poligono della siccità”, la metafora grandiosa e commovente dello scrittore brasiliano Diogo Mainardi. Costruito come un film di Glauber Rocha, le pagine sembrano intossicarci con le atmosfere polverose delle strade percorse da Manoel Vitorino che vaga alla ricerca di un cimitero dove seppellire il cadavere in via di putrescenza del proprio figlio. La sintassi secca, è cruda e violenta come Catarina Rosa che ammazza, impiccando e squartandolo il marito. Un universo senza speranza, dove nessuno nutre velleità di redenzione anche perché lo spettro dell’Untore che tutto distrugge ed annichilisce in un afflato escatologico, non offre via salvifica. L’untore, con il suo mortale contagio, bacia indifferentemente latifondisti e mandriani, bambini e vecchi, ma soprattutto distrugge il mito dell’allegria e del finto folclore del brasile. Come dice l’autore stesso nella conclusione “ Il lettore non conta. E’ subalterno rispetto all’autore e non ha alcun diritto d’interferire… quando la letteratura non uccide l’uomo, è l’uomo a uccidere la letteratura”.


Nessun commento: